Nel 1942 l'Italia ha la sua legge urbanistica Siamo in piena guerra. nel nostro paese, nella primavera del 1945. Inizia la fase della ricostruzione del paese. I danni sono enormi, sebbene meno gravi che in altri paesi europei, come la Germania, la Polonia, i paesi della Jugoslavia. È colpito il patrimonio abitativo, le infrastrutture: più di tre milioni sono i vani distrutti o gravemente danneggiati; sono distrutti un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono concentrati nel triangolo industriale e nelle grandi città. Particolarmente acuto il problema abitativo che già prima della guerra era assai grave (il censimento del 1931 aveva rilevato 41,6 milioni di abitanti e 31,7 milioni di stanze).
In molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale, ma in Italia, viceversa, è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva: con l'alibi appunto di «superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati» attraverso «dispositivi agili e di emergenza», fu accantonata la legge urbanistica e fu varata la legge sui piani di ricostruzione, disciplinati da norme speciali, estesi solo a porzioni del territorio comunale, causa di molte sciagure per le città italiane.
Da allora in Italia, a differenza che negli altri paesi civili, l'emergenza viene adoperata per eludere le regole della pianificazione e della corretta e razionale gestione delle trasformazioni territoriali.
Nel dopoguerra, non si ha il coraggio di abbandonare esplicitamente la pianificazione. Allora si inventano i «piani di ricostruzione»: uno strumento semplificato, rozzo, privo di basi analitiche, finalizzato a far presto. Qualche macchia di colore su una carta per indicare le zone d'espansione, qualche segno nella città edificata per indicare i nuovi allineamenti. Poco di più di questo. I piani di ricostruzione avrebbero dovuto contemperare l'esigenza di dar corso ai più urgenti lavori edilizi con quella di non compromettere il razionale sviluppo dei centri abitati.
La procedura era la seguente. I comuni compresi negli appositi elenchi approvati dal ministero dei Lavori pubblici dovevano adottare entro tre mesi il piano di ricostruzione; le spese occorrenti per la sua progettazione erano a carico dello stesso ministero. Per facilitare l'attuazione dei piani, la cui durata complessiva non avrebbe dovuto superare i dieci anni (e che invece è stata prorogata fino ad oggi) erano previste procedure abbreviate per le espropriazioni; l'intervento diretto dello Stato, o dei privati attraverso la «concessione» da parte del ministero dei Lavori pubblici; infine particolari facilitazioni fiscali. Con altri provvedimenti legislativi, venivano poi concessi indennizzi e contributi per i danni di guerra e per la riparazione e ricostruzione di abitazioni danneggiate o distrutte dalla guerra.
Nell'immediato dopoguerra, la legge sui piani di ricostruzione era funzionale alla scelta di fondo di assegnare all'edilizia un ruolo trainante dello sviluppo. E’ nelle scelte compiute in quegli anni che sono le radici dell'attuale situazione di crisi della città e del territorio. Nell'immediato dopoguerra, la ripresa economica aveva posto subito il problema del ruolo trainante dello sviluppo, che non poteva essere interamente affidato all'industria del Nord sia a causa dei gravi danni subiti dagli impianti, sia a causa dell'arretratezza di quelli funzionanti, sia a causa della dequalificazione in cui si trovava la manodopera dopo la guerra
Il settore edilizio si prestava egregiamente al ruolo trainante poiché non richiedeva impianti costosi, imprenditori particolarmente esperti, manodopera qualificata, inoltre rispondeva ad una esigenza sociale molto sentita che era quella della ricostruzione del paese e della pressante domanda di abitazioni.
L’aumento della domanda, incoraggiata da mutui agevolati e da facilitazioni fiscali, ha incrementato i prezzi delle aree e delle abitazioni e ha favorito la speculazione e quindi la lievitazione dei prezzi delle abitazioni.
Gli anni Cinquanta sono gli anni d'oro della speculazione più sfrenata: gli anni delle «Mani sulla città».
A Napoli l'amministrazione di Achille Lauro da l'avvio al massacro della città. A Roma, a Milano, a Genova, a Napoli, a Catania, detta legge la Società generale immobiliare.
Come scrive Antonio Cederna, uno dei più lucidi e attenti osservatori degli scempi che stanno avvenendo:
Distruzione di monumenti antichi e rovina del loro ambiente, sventramento di antiche città, trasformazione in sordidi agglomerati di cemento di colli, parchi e campagne, tali e non altri sono i risultati dell'attività della Società generale immobiliare. Ad essa manca qualunque principio urbanistico, che sia minimamente organico e unitario: suo unico scopo, al pari di qualunque piccolo affarista, è di sfruttare al massimo i propri terreni: un po' poco, se si pensa alla prosopopea con cui essa presenta i suoi progetti, alla rispettabilità cui essa tiene e alla grande considerazione in cui è tenuta dai più. Guardiamo Roma: sia che costruisca a Monte Mario, sulla Cassia, sulla Casilina, sulla Tuscolana, sull'Ardeatina o sulla C, Colombo, l'Immobiliare non fa che stirare ciecamente Roma in tutti i punti cardinali, e quindi realizzare trionfalmente l'espansione della città a macchia d'olio, incrementando paurosamente e rendendo cronica l'anarchia, stabile il caos e il fallimento dell'urbanistica romana.
Durissimo è il giudizio di Cederna sulla società immobiliare che guida i processi di trasformazione delle città:
“l'Immobiliare è frutto di disordine sociale e politico e in questo disordine si nutre e fortifica. Il prestigio «tecnico» dell'Immobiliare, se consideriamo i risultati urbanistici, è una favola. La presenza, l'attività dell'Immobiliare e di chi ne imita il comportamento è ostacolo insormontabile per un moderno piano regolatore: a ogni impresa della Immobiliare le campagne suonano a martello per le nostre città.”
Nel 1955, ad opera di un piccolo gruppo di intellettuali mobilitati contro l'ennesimo tentativo di sventramento nel centro storico di Roma, nasce l'associazione Italia Nostra.
Tra le battaglie aperte da Italia Nostra per la difesa del patrimonio culturale italiano vanno segnalate quella per la salvaguardia di Agrigento, di Paestum, dei Colli Euganei, della Costa Smeralda, della Pineta di Migliarino e Ravenna. Oggi Italia Nostra è presente sul territorio nazionale con 200 sedi.
All'inizio degli anni Sessanta lo sviluppo industriale del paese si consolida, a partire dal 1960, si assiste, specialmente al Nord, alla fioritura di innumerevoli iniziative di pianificazione; ed è databile al 1960 l'apertura della battaglia per la riforma urbanistica.
Al’VIIIo Congresso, nel dicembre del 1960, viene presentata una proposta di riforma: è il cosiddetto Codice dell'urbanistica. L'Inu (Istituto Nazionale di Urbanistica) auspica l'istituzione delle regioni e tenta di integrare la pianificazione urbanistica con la programmazione economica attraverso l'istituzione di un Comitato nazionale di pianificazione (formato da ministri e presidenti delle regioni) e di un Consiglio tecnico centrale (a livello di alta burocrazia e di esperti urbanisti).
Il «codice» dell'INU non prevede l'esproprio generalizzato dei suoli destinati all'edificazione, se non in casi eccezionali e territorialmente limitati.
Per pubblicizzare, sia pure parzialmente, gli incrementi di valore delle aree urbane, e per stabilire, entro certi limiti, una perequazione di trattamento tra i diversi proprietari, viene proposto il meccanismo del comparto, oppure l'obbligo ai proprietari di cedere gratuitamente al comune, nelle zone di espansione, una quota del 30% dell'area totale da destinare ad attrezzature pubbliche e di sostenere le spese di urbanizzazione primaria. Per incidere sulla rendita fondiaria è previsto anche un più deciso ricorso agli strumenti fiscali.
La proposta dell'Inu riceve l'adesione dei partiti di sinistra e degli ambienti progressisti. La programmazione economica, la riforma urbanistica, la nazionalizzazione dell'energia elettrica sono alcuni dei temi sui quali si polarizza il dibattito politico in vista della partecipazione dei socialisti al governo. Di riforma urbanistica si comincia a parlare concretamente anche in sede ministeriale.
La proposta del governo non si distacca molto da quella elaborata dall'Inu e resta sostanzialmente nel solco dei principi ispiratori della legge del 1942, pur sostenendo notevoli perfezionamenti di carattere tecnico e procedurale, suggeriti da oltre un decennio di esperienze applicative di quella legge. Anche in questa proposta non è risolto il problema dell'acquisizione - a favore della collettività - della plusvalenza delle aree e della disparità di trattamento fra i vari proprietari in relazione alle destinazioni d'uso stabilite dai piani.
Autore della proposta che risolve alla radice il problema della rendita fondiaria urbana è Fiorentino Sullo, ministro democristiano dei Lavori pubblici dal febbraio del 1962. Preso atto che «la stragrande maggioranza degli urbanisti non si dichiarava d'accordo» con lo schema elaborato dalla commissione insediata da Zaccagnini, ricostituisce la stessa commissione, integrandola con giuristi, economisti, sociologi.
Il disegno di legge Sullo è pronto nel giugno 1962. La riforma è impostata su basi completamente nuove e originali. Per quanto riguarda i rapporti tra programmazione economica e pianificazione urbanistica, il progetto stabilisce che l'indirizzo e il coordinamento della pianificazione urbanistica debbono attuarsi nel quadro della programmazione economica nazionale e in riferimento agli obiettivi fissati da questa. In attesa della costituzione degli organi che saranno preposti all'attuazione del piano economico è prevista l'istituzione di uno speciale comitato di ministri che provvede ad impartire le direttive.
La pianificazione urbanistica si articola, sia nella fase regionale che statale, agli stessi livelli e con gli stessi dispositivi previsti dal progetto Zaccagnini: piano regionale, piano comprensoriale, piano regolatore comunale e piano particolareggiato.
Il piano regolatore generale e quello comprensoriale - quando questo ha valore di piano generale - sono obbligatoriamente attuati per mezzo di piani particolareggiati, le cui prescrizioni hanno valore a tempo indeterminato e nel cui ambito il comune promuove l'espropriazione di tutte le aree inedificate (fatta eccezione per quelle demaniali) e delle aree già utilizzate per costruzioni se l'utilizzazione in atto sia sensibilmente difforme rispetto a quella prevista dal piano particolareggiato, nonché delle aree che successivamente all'approvazione del piano particolareggiato vengano a rendersi edificabili per qualsiasi cause.
Acquisite le aree, il comune provvede alle opere di urbanizzazione primaria e cede, con il mezzo dell'asta pubblica, il diritto di superficie sulle aree destinate ad edilizia residenziale, che restano di proprietà del comune. A base d'asta viene assunto un prezzo pari all'indennità di esproprio maggiorata del costo delle opere di urbanizzazione e di una quota per spese generali. Quando si tratta di aree richieste da enti pubblici operanti nel settore edilizio, da società cooperative aventi gli stessi fini, ovvero nel caso in cui le aree siano adibite ad utilizzazioni industriali, la cessione avviene a trattativa privata.
L'indennità di espropriazione è determinata, per i terreni non edificati e non aventi destinazione urbana prima dell'approvazione del piano, in base al prezzo agricolo; per i terreni non edificati, ma aventi già destinazione urbana, in base al prezzo dei più vicini terreni di nuova urbanizzazione, aumentato della rendita differenziale di posizione in misura non superiore ad un coefficiente massimo fissato dal comitato dei ministri, e infine, per i terreni edificati, in base al valore di mercato della costruzione.
In sintesi, lo schema Sullo modifica profondamente il regime proprietario delle aree: di proprietà privata resta soltanto una parte delle aree edificate, le altre aree - edificate o edificabili - passano gradualmente in proprietà dei comuni, che cedono ai privati il diritto di superficie per le utilizzazioni previste dai piani.
Il 14 luglio del 1962, la presidenza del Consiglio dei ministri - a cui Sullo aveva trasmesso il disegno di legge - comunica di «condividere in linea di massima i criteri informatori della nuova disciplina urbanistica» e muove solo osservazioni di natura tecnica. Del suo disegno di legge Sullo parla pubblicamente in più occasioni: al convegno ideologico della DC a San Pellegrino, nel settembre; a chiusura del dibattito parlamentare sul bilancio del ministero dei Lavori pubblici, in ottobre; e al IXo Congresso dell'INU, a Milano, nel novembre. Nessuna particolare reazione viene suscitata dalla pubblicità che gli urbanisti, e lo stesso Sullo, organizzano intorno alla proposta di riforma.
Ci si avvicina così alla scadenza della legislatura e alle elezioni politiche della primavera del 1963.
È nell'aprile del 1963 (le elezioni sono fissate per il 28 aprile) che si scatena «lo scandalo urbanistico»: una furibonda campagna di stampa (in primo luogo «II Tempo» di Roma) contro il ministro dei Lavori pubblici accusato di voler togliere la casa agli italiani.
E lo stesso Sullo che racconta:
“A casa mia, con un senso di sgomento e di smarrimento più che di curiosità, miei parenti stretti mi chiesero, anche essi, se volessi togliere loro davvero la casa. [...] Ed io, confesso, non sapevo più come difendermi da una allucinazione generale: non bastava a difendermi il tentativo di spiegare gli errori giuridici degli oppositori, ne il rammentare che in Parlamento, nell'ottobre 1962, avevo dichiarato che del diritto di superficie si sarebbe potuto fare a meno. Non c'era che una strada: spiegare al video a milioni di telespettatori la realtà e la fantasia. Ma questo non mi fu permesso. Invece, senza affatto consultarmi, mentre ero assente dalla capitale e con una comunicazione postuma alla mia segreteria di Roma, venne una doccia fredda; la dissociazione delle responsabilità del mio partito dalle mie. Fui sbalordito per l'oggettiva ingiustizia morale verso di me.”
Con una «dolorosa nota» del 13 aprile «II Popolo» comunica che la DC dissocia la propria responsabilità dall'operato del ministro Sullo.
«Se i lavoratori - commenta Sullo - non erano sufficientemente mobilitati a favore della legge, la mobilitazione dei proprietari di case era invece massiccia».
Sullo viene sostituito dal socialista Pieraccini. Negli accordi tra i partiti per la formazione del governo Moro, viene concordato che la riforma urbanistica deve assicurare la preminenza dell'interesse pubblico, attraverso l'acquisizione alla collettività delle plusvalenze fondiarie e la posizione di «indifferenza» dei proprietari rispetto alle scelte di piano. Su queste basi viene elaborato il disegno di legge Pieraccini: si conserva il principio dell'esproprio generalizzato, l'indennizzo però non è pari al prezzo agricolo ma è rapportato al valore di mercato del 1958. Il diritto di superficie è abolito e sono esonerate dall’esproprio le aree interessate da progetti presentati prima del dicembre 1963. Mentre la proposta di legge cadeva insieme al governo, in tutta Italia vengono rilasciate una valanga di licenze edilizie.
A Sullo ministro dei Lavori pubblici si deve comunque l'approvazione della legge 167 del 1962 «per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare»,
I contenuti informatori della legge possono così sintetizzarsi:
Il meccanismo previsto per l'acquisizione delle aree veniva però dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale, in quanto la dissociazione del momento in cui viene determinata l'indennità da quello dell’ espropriazione può condurre ad una liquidazione dell'indennità in misura solo simbolica; ad avviso della Corte l'indennità deve costituire invece, in ogni caso, un serio ristoro del danno patrimoniale subito dall’espropriato, anche se non è da escludere la legittimità delle decurtazioni del valore venale stabilite dal legislatore.
In sostituzione degli articoli dichiarati illegittimi fu promulgata una legge con la quale, per la determinazione dell'indennità di espropriazione, si fa ricorso alla legge di Napoli del 1885. Questa è stata solo una delle ragioni che hanno reso stentata, irta di difficoltà, la vita della 167.
A Roma il piano di zona, approvato nel 1964, vincolava circa 5 mila ettari per 711 mila stanze, e prevedeva la realizzazione di 162 mila stanze nel primo triennio di attuazione; nel novembre 1970 erano state assegnate le aree per 105 mila stanze e ne erano state realizzate non più di 17 mila.'
Nel 1964 la crisi edilizia, che ciclicamente riaffiora, è decisiva. La parola d ordine prevalente è che prima di porre mano alla riforma bisogna tornare alla «normalità»; così si ridà fiato alla speculazione. La riforma urbanistica esce di scena.
Gli scandali edilizi si susseguono intanto a ritmo serrato. La speculazione edilizia in tutto il paese, ma in particolare nel Mezzogiorno, riesce ad alimentare una rete di collusioni sempre più fitta e sedimentata.
Il suolo italiano, intanto, viene lottizzato. Da un'inchiesta del ministero dei Lavori pubblici, emergono dati impressionanti: solo in un quarto dei comuni italiani (poco più di 2 mila) sono state autorizzate lottizzazioni per circa 115 mila ettari, per oltre 18 milioni di vani, quanti sarebbero sufficienti a colmare l'intero fabbisogno nazionale di alloggi fino al 1980.
Inutile dire che le lottizzazioni non servono a colmare alcun fabbisogno reale perché fioriscono al di fuori di qualsiasi programma di interesse generale, aggravano anzi gli squilibri esistenti.
Le zone investite dalle lottizzazioni sono quelle di massima concentrazione abitativa (il triangolo industriale, la piana veneta, l'area romana e napoletana, ecc.) ovvero quelle più pregiate per valori paesaggistici, le coste soprattutto.
La localizzazione degli insediamenti e l'utilizzazione del suolo ubbidisce esclusivamente alla convenienza dei proprietari che accollano alle esaurite finanze comunali le spese per strade, acqua, luce, ecc. «Il lottizzatore italiano - scrive Michele Martuscelli, che ha diretto l'inchiesta - non è nemmeno un imprenditore, ma un semplice mercante dei terreni»; il suo interesse per il completamento dell'iniziativa cade non appena la maggior parte dei lotti è stata venduta ed è stata intascata la differenza fra il valore dei terreni divenuti edificabili e quello agricolo originario.
Ma ecco l'avvenimento che ripropone drammaticamente l'intera «questione urbanistica».
Il 19 luglio 1966 una frana di inconsuete dimensioni, improvvisa, miracolosamente incruenta, ha buttato fuori casa migliaia di abitanti.
La frana è stata causata dall'enorme sovraccarico edilizio: ben 8.500 vani costruiti negli ultimi anni in contrasto con tutte le norme esistenti.
Mancini, ministro dei Lavori pubblici, nomina una commissione d'inchiesta e nel settembre la «relazione Martuscelli» è resa pubblica.
Vengono evidenziate grandi responsabilità di amministratori e politici e connivenze con la mafia.
L'impressione nel paese è enorme. Sotto accusa è la DC che amministra la città da vent'anni e il sistema di potere economico e politico fondato sulla speculazione e l'affarismo.
Un aspro dibattito si accende nel Parlamento e nel paese, iI dramma di Agrigento ripropone il problema dello sviluppo democratico, economico civile della Sicilia e del Mezzogiorno.
La DC fa quadrato intorno ai suoi uomini compromessi.
Gran parte della stampa conservatrice tenta di accreditare la versione dell'«evento naturale imprevedibile». In questa tesi, in fondo, c'è del vero: la sordida connivenza tra amministratori e speculatori, che è all'origine della frana, non è una triste prerogativa di Agrigento;
Agrigento riproduce in piccolo la generale situazione italiana, da Roma a Napoli, da Palermo a Mestre, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite.
La «lezione di Agrigento» induce Mancini a correre ai ripari; «in attesa che la nuova legge urbanistica sia emanata, appare indispensabile ed urgente l'emanazione di norme intese a porre un freno all'attuale situazione di disordine urbanistico-edilizio». Così inizia la relazione al ddl governativo, che sarà approvato nell'estate del 1967 e sarà noto come «legge ponte».
Ad accelerare l'approvazione della legge concorsero anche, indubbiamente, i disastri del novembre 1966: le tragiche alluvioni di Firenze e Venezia, le frane e le alluvioni nel Veneto.
Come scrive Giovanni Astengo: Alla radice di ognuno di essi sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuativo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatori che si concreta nel mancato uso razionale degli strumenti della pianificazione territoriale ed urbanistica.
Il 1° settembre 1967 viene emanata la legge 6 agosto 1967 n. 765 - legge ponte, recante "modifiche e integrazioni alla legge urbanistica del 1942. Viene subito definita «legge ponte». Essa cerca di portare un po’ di ordine all’attività edilizia e urbanistica. La legge limita le possibilità di edificazione nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici (che sono il 90 % dei comuni italiani) e cerca quindi di incentivare la formazione dei piani. Per i comuni inadempienti è previsto l'intervento sostitutivo degli organi dello Stato.
L'intervento sostitutivo dello Stato e più rigide sanzioni sono previste anche per punire le illegittimità e gli abusi edilizi. La legge stabilisce anche che sono proibite le lottizzazioni nei comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di fabbricazione e accolla ai privati le spese per le opere di urbanizzazione primaria (strade, fognature, acqua, luce, verde di vicinato, ecc.), e per parte di quella secondaria (scuole, ambulatori, parchi, centri sociali ecc... )
L innovazione fondamentale della legge ponte riguarda i cosiddetti standard urbanistici, cioè le quantità minime di spazio che ogni piano deve inderogabilmente riservare all'uso pubblico, e le distanze minime da osservare nell’ edificazione ai lati delle strade. Così finalmente con un ritardo di decenni su altri paesi europei, un decreto ministeriale del 1 aprile 1968 stabilisce che ogni cittadino ha diritto ad un minimo di 18 mq di spazio pubblico (asili nido, scuole materne e dell'obbligo, attrezzature di interesse comune culturali, assistenziali, amministrative, religiose, sociali, sanitarie, parcheggi pubblici; verde, gioco e sport)
sp;Un passo avanti, indubbiamente, è stato compiuto; ma viene pagato duramente. La legge ponte, come si è detto, limita la possibilità di edificazione nei comuni sprovvisti di strumento urbanistico (non si possono costruire più di un metro cubo e mezzo per ogni metro quadrato, all'interno dei centri abitati, e non più di un decimo di metro cubo per metro quadrato nelle zone esterne, in ogni caso l'altezza non deve superare i tre piani). Per costruire di più è quindi necessario fornirsi del P.R.G. o del programma di fabbricazione. Ma durante il dibattito parlamentare, per evitare che l'attività edilizia fosse «scoraggiata», passa un emendamento che rinvia di un anno l'attuazione di quelle limitazioni: è il famigerato «anno di moratoria» della legge ponte.
Dal 1° settembre 1967 (data di approvazione della legge) al 31 agosto 1968 (scadenza dell'anno di moratoria) l'Italia è inondata di licenze. Sul finire dell'agosto 1968 l'attività degli uffici tecnici e delle commissioni edilizie è frenetica. Sono stati accertati infiniti casi di licenze edilizie che, in data 31 agosto, sono state presentate al comune per l'approvazione, «istruite» dagli uffici tecnici comunali, esaminate e approvate dalla Sovrintendenza ai monumenti e dal Genio civile, discusse in commissione edilizia e firmate dal sindaco.
Un'indagine condotta dal ministero dei Lavori pubblici e dall'Istituto centrale di statistica rivela che nell'anno di moratoria sono state rilasciate licenze per 8 milioni e mezzo di vani residenziali, quasi il triplo della media annuale di vani autorizzati nel decennio precedente. Le nuove licenze edilizie riguardano poco più di un quinto dei comuni italiani, tutti quelli ricadenti nelle aree metropolitane più congestionate e nei territori di maggior pregio naturale e paesaggistico.
Scaduto l'anno di moratoria, gli effetti positivi della legge ponte dovrebbero farsi sentire, ma «la mobilitazione dei proprietari», di cui aveva parlato Sullo, innesca un'altra bomba destinata a paralizzare l'attività urbanistica.